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Nessuna vuole essere Sporty Spice

Culture. Eat it

21 Gennaio 2022

storie

Nessun* vuole essere Sporty Spice

di Sara Cartelli

1996, 5b, eccomi lì. Una timida bionda con la frangia che frequentava l’ultimo anno della scuola elementare. Alla radio, in televisione, nel mio stereo c’era una canzone che faceva così “If you wanna be my lover, you gotta get with my friends”.
Era Wannabe, il primo singolo delle Spice Girls.

Da quel momento tutte abbiamo voluto essere una Spice. E come poteva essere altrimenti? Erano cazzutissime, forti, spigliate, cantavano, ballavano e a suon di girl power ci ricordavano che essere donne non era una seconda scelta, che anche se il prete non ci voleva come chirichette a causa del nostro sesso potevamo essere qualcosa di grande, di potente, di assoluto.

Nello specifico ero Ginger Spice (nessuno tocchi Ginger Spice!) e non so se è una coincidenza, ma a trentasei anni mi ritrovo con i capelli ginger e tanta voglia di stare strizzata dentro la Union Jack gridando “People of the world, Spice up your life”.

Non preoccupatevi, non lo farò mai.

Alla scuola elementare di Spilimbergo eravamo un nutrito gruppetto di bambine che sapevano benissimo cosa volevano e cosa non volevano essere. Nessuna voleva essere Sporty Spice. E non era colpa sua, povera Mel C. Era colpa nostra che eravamo attaccate a quella figura lì, quella che vuole la donna femminile e aggraziata. La principessa. Non lo sapevamo che solo due anni dopo saremo andate in giro con i track pants dell’Adidas (quelli con i bottoni laterali ndr.) e con i pantaloni larghi con i tasconi poi perché era arrivato The Real Slim Shady e nessuno era più figo di Eminem. Che avremo indossato le Buffalo e saltato fino a perdere le forze in sala techno o che iniziando ad ascoltare la musica indie saremo diventati dei fighetti alternativi, mai sopra le righe, perché forse avevamo preso sul serio il rigore imposto da Angela Merkel o semplicemente perché eravamo stufi degli eccessi.

Era tutto completamente diverso dallo strappamento di capelli per lo scioglimento dei Take That o dell’amore per Gary Barlow, ma allo stesso tempo era qualcosa di comune, normale. Negli anni ’50 c’erano i mod e i rocker, poi i punk, i metallari, gli emo, tutte persone che si identificavano in un genere musicale, che seguivano dei codici di vestiario, dei precisi stili di vita e che si riconoscevano anche in determinati valori o ideali politici.

Poteva essere un gruppo o un genere, ma la musica plasmava la società e plasmandola trasformava noi come individui, che creavamo comunità e cultura. I codici di appartenenza al gruppo (musica e vestiario) non erano un vezzo, ma un modo per ritrovarsi ed esprimersi.

Non so cosa sia rimasto delle sottoculture musicali. Se qualcuno si senta ancora parte di qualcosa o solo un frammento nel vuoto infinito. So di certo che grazie alle Spice Girls ho scoperto che potevo abbandonare la solitudine da figlia unica, che in qualche modo tutti i frammenti di cui ero composta potevano incastrarsi come in un puzzle, che avrei trovato uno sguardo che si riconosceva nel mio e che tutto quello che avrei ascoltato non sarebbe stato semplicemente della musica, perché io ero la musica che ascoltavo.

La musica è politica e noi siamo musica.
Con buona pace di quelli che pensano il contrario.

Alla fine, col senno di poi, sarebbe stato bello essere Sporty Spice.

Photos: Sara Cartelli

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Sara Cartelli

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Sara Cartelli

biografia:

Copywriter, folletto tuttofare e mamma con una passione smisurata per la fotografia. La scrittura è una medicina che le permette di esprimere la propria personalità e far emergere la sua vera voce. Meglio di uno psicanalista. Alla perenne ricerca di una strada da seguire, al momento, preferisce perdersi.

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