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Hurt: Dai Nine Inch Nails a Johnny Cash

Culture. Eat it

27 Gennaio 2021

leggi come suona

Hurt: dai Nine Inch Nails a Johnny Cash

di Sara Cartelli

Ogni qualvolta mi trovo ad affrontare il dolore, la tristezza o la solitudine, ogni qual volta devo fare i conti con me stessa c’è una canzone che mi accompagna. Quella canzone è Hurt.
La ascolto compulsivamente, a ripetizione, perché per me quello è in assoluto il brano che tocca il dolore più da vicino e quando soffro, l’unica cosa che voglio è non fuggire. Voglio attraversare il dolore, riuscire ad entrarci dentro.

Se sto male, voglio permettermi di stare male.

Uscita a marzo del 1994, Hurt è la traccia finale di The Downward Spiral dei Nine Inch Nails. L’album racconta la storia di un individuo alla ricerca della propria salvezza, perso in un vortice di autodistruzione, abuso di sostanze stupefacenti e odio. Hurt chiude il racconto parlando di ciò che resta di questo dolore, l’unica cosa che sembra reale al protagonista, “una corona di merda e un trono di bugie”, la solitudine di chi si sente abbandonato, di chi ha visto andar via le persone intorno a lui. Una persona che nonostante tutto vorrebbe poter ricominciare da capo e trovare una via diversa, un nuovo modo di vivere.

Scritta in un luogo di dolore, ovvero la casa in cui morì Sharon Tate per mano dei seguaci di Charles Manson, Hurt è una delle canzoni più intime di Trent Reznor. È un’indagine del suo malessere, del suo senso di inadeguatezza, del suo sentirsi perennemente fuori posto e non sapersi integrare. Quando è stata scritta non soffriva di alcun tipo di dipendenza, iniziò ad abusare di sostanze dopo che l’album uscì. Dichiarò di essersi inconsapevolmente trasformato proprio nella persona che aveva immaginato e raccontato.

Perché Hurt è la canzone che a mio parere meglio rappresenta il dolore?

Per le sue parole, il cantato sussurrato che rende perfettamente quanto sia difficile condividere dei pezzi così intimi e dolorosi della propria vita e le sonorità volutamente riprese dal cinema. Reznor aveva studiato sound design e le tecniche per indurre disagio nello spettatore a livello inconscio, per questo nel brano vengono utilizzati suoni sovrapposti e segnali audio campionati.

Hurt: la versione di Johnny Cash

Nel 2002, un anno prima della sua morte, Johnny Cash produsse una cover di Hurt ridando notorietà al brano. Il video che lo accompagna, ambientato nella sua casa a Hendersonville, nel Tennessee, mostra un Cash fragile e autentico che ripercorre la sua intera esistenza. Autentico nella sua totale fragilità, anche a livello di salute, perché non era stato truccato e per le riprese non era stato utilizzato alcun artificio (neanche attraverso l’illuminazione) per renderlo più giovane o vibrante. Quando il manager e lo stesso Cash videro il video in anteprima, lo trovarono così intimo da non volerlo rilasciare. Fu Rosanne Cash, la prima figlia di Johnny Cash, a fargli cambiare idea.

Anche Trent Reznor cambiò idea. All’inizio contrariato per la realizzazione della cover, si ricredette proprio grazie a quel video che dichiarò essere “un potentissimo pezzo d’arte”. 

La versione di Johnny Cash non è la versione di Trent Reznor, la corona è di spine e non di merda perché Cash era cristiano, ma il trono di bugie è uguale e l’effetto della chitarra unita alla sua voce profonda è commovente.
Cash è alla fine della vita quando canta questa canzone, Reznor aveva ventinove anni quando la scrisse. C’è un abisso generazionale tra i due. Da una parte abbiamo un uomo alla fine della sua vita che guarda indietro e non può più salvarsi e, dall’altra, un giovane uomo incatenato al presente che può ancora scegliere di cambiare il suo futuro.
Sono due modi di vedere e sentire il dolore diversi, due modi probabilmente opposti che funzionano entrambi. E funzionano perché chi lo racconta quel dolore lo ha sentito e toccato.

Ognuno di noi vive il dolore in maniera assolutamente differente. Talmente differente che esprimere giudizi sullo stato d’animo altrui è insensato e scortese. È per questo che i “ma non ti rendi conto di quello che hai” o “pensa a quello che hai” non suscitano reazioni in chi li ascolta. Anzi, il risultato di quelle frasi è generalmente quello di far sentire in colpa chi si trova in uno stato d’animo negativo, dunque no, non sono propriamente funzionali.

Hurt ci insegna che il dolore è sfaccettato, non giudicabile, personale.
Hurt ci fa capire che stare dentro a sentimenti negativi non è sbagliato.
Hurt ci fa sentire così tremendamente umani. Ed essere tremendamente umani, in questo mondo dominato dal positivismo, è proprio liberatorio.

Photos: Sara Cartelli

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Autore

Sara Cartelli

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Sara Cartelli

biografia:

Copywriter, folletto tuttofare e mamma con una passione smisurata per la fotografia. La scrittura è una medicina che le permette di esprimere la propria personalità e far emergere la sua vera voce. Meglio di uno psicanalista. Alla perenne ricerca di una strada da seguire, al momento, preferisce perdersi.

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